21 gennaio 2008

Sapienza II

A FAVORE DEI CATTIVI MAESTRI
Note per una discussione senza freni sulla mancata visita del Papa a La Sapienza
di Walter Tocci

Da tanto tempo auspicavo che il Parlamento dedicasse una seduta solenne all’università italiana. È accaduto nel modo peggiore. Un’intera sessione è stata dedicata con massimo impegno di tutti i leader a contestare una lettera che un gruppo di professori aveva rivolto al proprio rettore sulla inopportunità di affidare al papa la lectio magistralis per l’inaugurazione dell’anno accademico. Lo stesso ceto politico si è poi turbato e almeno in parte ha espresso solidarietà a Mastella, del quale i giornali hanno raccontato cose immonde che suggerirebbero ad una persona normale il silenzio infinito, anche se non fossero dei reati.
La critica dei professori al proprio rettore si può condividere o meno ma era del tutto legittima e non c’entra nulla la questione posta al centro della polemica di questi giorni del confronto di opinioni e ancora meno la liberà di espressione, perché, come si sa, quella cerimonia non è affatto un momento di dibattito, ma una scelta di rappresentazione dell’ateneo con un discorso di alto profilo culturale, si tratta di una scelta del corpo accademico, una decisione apodittica per la quale non vi sono regole nè criteri oggettivi ed naturale quindi che sia esposta ad una possibile contestazione all’interno di quell’organismo. A chi dovevano avanzarla quella critica i professori se non al proprio rettore? Oppure si vuole sostenere che non avevano diritto di criticarlo perché c’era di mezzo il papa? Cioè in altri termini, di fronte ad un invito tanto solenne si deve sospendere la dialettica interna all’ateneo? E per quali altri autorità varrebbe questo principio sospensivo? Insomma mi sembrano del tutto infondati gli argomenti che pure hanno vinto nel senso comune dei politici, dei giornalisti e anche di molti professori. Non solo, per questi legittimissimi atti quei professori sono messi all’indice come cattivi maestri o peggio ancora come responsabili della crisi morale del paese.
Sulla lettera dei professori si è innestata la solita goliardia e la rappresentazione estremistica del problema di una parte minoritaria degli studenti, come è sempre successo all’università, anzi forse la novità è che tutto sia accaduto in tono minore e comunque senza le violenze che purtroppo hanno contraddistinto altri momenti ben più drammatici dell’ateneo romano. La mancanza di un problema di ordine pubblico d’altro canto è stata certificata dal ministro dell’interno, secondo il quale non vi erano impedimenti di sicurezza per la visita papale.
Su tutto ciò si è montato uno dei quei teatrini politico-mediatici che ormai almeno una volta a settimana tengono impegnata la pubblicistica nazionale, quasi sempre su dibattiti tanto carichi di simboli quanto vuoti di sostanza. In questa furia mediatica si è particolarmente specializzata la Chiesa cattolica, che nel giro di una settimana ha occupato la scena televisiva per ben due volte, prima rimbrottando la città di Roma ma lasciando intendere che poteva essere perdonata dai suoi peccati se avesse finanziato gli ospedali cattolici (nessuno degli editorialisti laici che si è
stracciato le vesti per la vicenda dell’università ha notato la commistione tra sacro e profano di quel discorso papale), poi cogliendo l’occasione della querelle universitaria per dare sfogo alle corde del vittimismo cattolico che da secoli costituisce la sua formidabile arma propagandistica.
Come tutte le ventate mediatiche anche questa è stata un’occasione persa, fiumi d’inchiostro e ore di televisione per dirci dell’importanza del confronto di opinioni e della libertà di espressione, principi sacri che non c’era bisogno di scomodare perché assolutamente non toccati dalla vicenda. Non si trattava di organizzare un dibattito col papa, questo sì sarebbe stato grave impedirlo, ma si trattava di decidere l’opportunità che la Sapienza scegliesse il papa come rappresentazione del proprio programma di ricerca, cosa legittimamente discutibile e discussa. Del tutto risibile poi
è l’altra lamentela sulla libera espressione del papa, quando sappiamo benissimo che in nessun altro paese europeo il Vaticano gode di una presenza tanto esuberante in tutti i media come accade invece da noi senza alcuno scandalo.
Invece di stare a discutere se c’è la libertà di discutere, in assenza di alcun impedimento a discutere, faremmo meglio a discutere del merito.
Come mai sono stati proprio i fisici ad aprire la polemica? Il processo a Galileo costituisce un passaggio fondamentale nella formazione di un fisico, soprattutto italiano, sia sul piano epistemologico sia su quello morale. È naturale quindi una sensibilità maggiore di altre discipline, soprattutto se ad attivarla ci sono ragioni precise e queste certo non mancano da quando papa Ratzinger ha deciso di sferrare un attacco a tutto campo alla scienza moderna. Non è questione di una frasetta o di una citazione passeggera, fanno torto al papa gli apologeti sia di destra sia di sinistra nel non vedere la rottura radicale, non solo rispetto al Concilio, ormai già consumata
da tempo, ma anche rispetto al predecessore Giovanni Paolo II. Il suo chiedere perdono per il processo a Galileo è stato uno dei grandi atti emblematici attraverso cui la Chiesa in alcuni momenti ha saputo ricollocare il proprio ruolo nella narrazione storica mondiale. Ma quell’atto era per il papa polacco perfettamente speculare all’accorata richiesta di riconoscimento in costituzione europea delle radici cristiane della civiltà occidentale. Coerentemente di quelle radici ricordava la linfa vitale, ma anche le sofferenze e le divisioni, chiedendo di valorizzare la prima e facendosi carico delle seconde, nel modo penitenziale che da sempre ha fondato la forza
spirituale del cristianesimo. Si può condividere o meno quelle tesi, si può partecipare o meno a quella tensione morale, ma certo si è trattato di un capolavoro lasciato in eredità da Woitila ai suoi successori. È incredibile lo squilibrio, questo sì poco dibattuto, introdotto da Ratzinger in quel capolavoro, chiedendo a gran voce il riconoscimento del primato della Chiesa, ma senza riconoscerne i peccati, riprendendo anzi l’argomento di Bellarmino, anche lui sofisticato intellettuale europeo di quel tempo, di una conciliazione tra ragione e fede. Ma una volta posto
come obiettivo tale accordo si tramuta rapidamente in una sottomissione della ragione alla fede, a causa della diversa forza performativa di quei due ambiti nello spirito umano e poiché, a dispetto delle illusioni positivistiche, più aumenta la conoscenza e maggiori sono le occasioni per la credulità.
L’identificazione tra fede e ragione è il fatto nuovo, una rottura e in parte un ritorno al passato, nella storia della Chiesa, con conseguenze di grande portata su entrambi i lati. Mi sia permesso di esprimere innanzitutto la preoccupazione per la stessa religione cristiana che viene ricondotta in tal modo ad un’esigenza ellenizzante di coerenza conoscitiva, rischiando di perdere un filone irrazionale certo non secondario nella sua storia, a cominciare dalla sfida paolina dello scandalo per i giudei e follia per i pagani. La questione non è solo teologica ma presenta profonde ricadute pastorali, poiché in società secolarizzate come le nostre la rinnovata voglia di ortodossia porta la Chiesa ad un ruolo di divisione della comunità civile. L’insistenza sui principi non negoziabili apre conflitti difficilmente ricomponibili. In una democrazia matura i principi non negoziabili possono essere solo quelli scritti nella Carta costituzionale altrimenti diventa difficile la condivisione di uno spirito pubblico. Ed è incredibile che ciò accada proprio oggi, quando siamo diventati tutti liberali, quando non ci sono più le divisioni ideologiche novecentesche, né la guerra fredda, né le contrapposizioni tra sistemi politici-culturali. Il papa buono indicò la soluzione con la sintesi che possono avere solo le profezie, distinguendo cioè tra l’errore da condannare e l’errante da amare. Oggi nella pastorale di Ruini suonerebbe scandalosa quella distinzione. In poco più di quarant’anni l’errore è diventato una clava contro gli erranti. Allora la Chiesa seppe svolgere una funzione unificante che le venne riconosciuta ampiamente e per questo aumentò e la sua credibilità morale e politica portando in Italia alla scomparsa, un secolo dopo Porta Pia, di qualsiasi retaggio anticlericale. Poi questo clima si è rotto e certo non sono i stati i settanta
professori della Sapienza a compiere il primo strappo. Non sarebbe male se Oltretevere gli animi più meditativi sollevassero la domanda su eventuali responsabilità della Chiesa per il clima di scontro che si è creato in Italia, e che certo poco si confà al ruolo di pacificazione della religione cristiana.
Mi si può dire legittimamente che questi non sono discorsi da fare ai cardinali, ai quali non possiamo certo insegnare il cristianesimo. È vero, però se loro hanno portato in trionfo gli atei che parlano devotamente della Chiesa saranno altrettanto tolleranti, almeno speriamo, se riceveranno qualche critica ispirata da sincera devozione religiosa.
Ma le conseguenze dell’accordo tra fede e ragione sono evidentemente ancora più pesanti per il secondo lato del problema. Non viviamo un periodo qualsiasi, il secolo che è appena cominciato sarà verosimilmente caratterizzato dal massimo conflitto tra scienza e religione, come forse non è mai accaduto nei secoli passati. I fisici, in ragione della loro Bildung, lo hanno avvertito per primi, ma lo scontro non riguarderà la loro scienza. Il conflitto tra Bellarmino e Galilei verteva su ciò che è esterno all’uomo, pur nelle sconfinate dimensioni dell’universo. Ma ora il conflitto riguarderà l’interno di noi, su come siamo fatti in quanto uomini, sulla natura vivente che ci costituisce. E su questo sarà lacerante la discussione, salteranno tutte le attuali divisioni ideologiche e verranno travolte le tradizionali recinzioni culturali.
Il XXI sarà il secolo della natura umana come il XVII secolo lo è stato per la natura dell’universo. Siamo solo agli inizi ed è già difficile dare una definizione della natura umana in modo condiviso, già ne diamo diverse e inconciliabili, eppure di tutte sorrideranno i nostri pronipoti. La rivoluzione della scienza della vita - in risonanza con la scienza della mente, dell’informazione e della materia – porterà a rotture profonde di paradigmi conoscitivi, a innovazioni tecnologiche inimmaginabili, ad impatti sociali e mentali di proporzioni mai viste nella storia dell’umanità.
Che cos’è la natura umana è una domanda che ricorrerà in modo inquietante per tutto il secolo e via via verranno date risposte diverse. D’altronde è stato così anche prima, seppure più lentamente, su ciò che è la vita il pensiero si è differenziato nella storia e tra diverse civiltà. La Chiesa cattolica pretende di dare una definizione fissata per sempre della natura umana e in questo curiosamente sposa un certo illuminismo di tradizione giusnaturalista. Ma è la stessa teologia cattolica a smentire questa fissità con il suo sviluppo. Basta prendere un manuale di teologia di mezzo secolo fa per trovare una concezione della vita centrata sulla persona piuttosto che sull’embrione.
La confusione del Vangelo con la biotecnologia è ovviamente un prodotto molto recente e non tra i più solidi dell’esegesi cristiana.
Ciò nonostante la Chiesa cattolica pretende di bloccare la discussione sul nascere con la definizione ipostatica di natura umana e offrendosi come autorità spirituale che la certifica anche per i non credenti. In questo meccanismo si ripresenterà in modo devastante l’intolleranza cattolica, come pretesa di bloccare ciò che è fluido nella trasformazione culturale.
Eppure, cambierà, cambierà di molto la nostra concezione della natura umana durante il secolo appena cominciato. E tale cambiamento sarà forse il banco di prova più impegnativo della democrazia, della sua capacità di fare ordine non solo nei rapporti sociali, ma anche di regolare la vita e la morte. Qui si giocherà il destino stesso della democrazia come sistema di decisione tra diversi, come risultato di habermasiane azioni comunicative. Vincerà anche questa sfida come tante altre in passato la democrazia se saprà coltivare da sé le sementi per la propria crescita se, per dirla con Bobbio manterrà la sua promessa di alimentare al suo interno le energie per il proprio sviluppo. Se al contrario passerà l’idea che la democrazia è un orcio vuoto, una mera procedura come spesso anche noi di sinistra abbiamo preferito credere, allora vinceranno quelli che intendono riempirla con il buon vino d’annata, con i valori dei bei tempi andati, con la religione civile e pagana ma rassicurante anche per chi non crede.
Di fronte alla mutazione che ci attende la Chiesa è più avanti di tutti. Con il suo fiuto millenario ha capito che la sfida decisiva è sulla scienza del XXI secolo e ha già collocato le sue forze in campo. Tra le organizzazioni scientifiche essa è quella che spende maggiori energie organizzative, ideologiche e comunicative per gestire i risultati della ricerca scientifica dal proprio punto di vista. È molto più avanti in questo lavoro del pensiero laico e d’altronde ci vuole poco, basta ricordare il recente referendum per la procreazione assistita deciso dalla semplicità della propaganda
cattolica contro l’afasia della comunicazione laica.
Ma questa è solo la punta dell’iceberg di uno squilibrio di forze molto più profondo.
Da almeno vent’anni è pienamente sviluppato un grappolo di rivoluzioni scientifiche che minano alle fondamenta le basi epistemologiche della modernità. Il mondo di Galileo è oggi superato non dalle frasi di Ratzinger ma dai nuovi paradigmi delle scienze della vita, della mente, dell’informazione e della materia, i cui maggiori successi non sono riconducibili al concetto e al ruolo della legge scientifica della fisica classica. Eppure la rivoluzione galileiana non rimase confinata alla descrizione della natura ma ebbe impatti in tanti altri campi del sapere, i quali da lì presero ad organizzarsi in diverse discipline proprio per raggiungere l’incisività e la potenza del
metodo matematico sperimentale. La ragione moderna venne organizzata prima come legge scientifica e poi come legge dello Stato, la costituzione fondamentale, e poi ancora come legge filosofica, le categorie speculative.
A Galilei risposero gli Hobbes e i Kant e tutto il sistema di pensiero moderno venne modellato su assiomi fondamentali da cui discendono per deduzione le verità particolari.
Questa mirabile costruzione di pensiero è travolta dalle scienze del XXI secolo, le quali sono andate molto avanti, senza che il pensiero riesca a star loro dietro con una comprensione all’altezza delle necessità. Oggi usiamo furiosamente le conseguenze tecnologiche di queste scienze ma non si vedono in giro gli Hobbes e i Kant capaci di proporci nuovi ordini politici e filosofici per capire davvero la rivoluzione di internet o della postgenomica.
La scienza è oggi molto più avanti della nostra capacità di comprenderla con la cultura e di governarne gli esiti. È una di quelle fasi storiche in cui la potenza di trasformazione sopravanza la capacità di regolare i processi. C’è un’asimmetria tra la forza della scienza e la debolezza del pensiero. In questo scarto nasce l’inquietudine contemporanea e il senso di smarrimento, quella sottile contraddizione dello Sciamano in elicottero, per riprendere un testo di Marco D’Eramo, che mescola nella confusa postmodernità sia l’innovazione sia la regressione culturale.
Questo squilibrio apre la strada a due esagerazioni. Da una parte la sicumera di alcuni settori scientifici e soprattutto tecnologici che, sapendo di essere più essere più avanti, spargono le illusioni di magnifiche sorti e progressive, riproponendo tra tutte le culture scientifiche il più consunto positivismo, cioè quanto di più lontano dalla complessità dei loro saperi.
Dall’altro estremo la Chiesa cattolica si offre di sanare lo squilibrio con la conciliazione, ma sarebbe meglio dire con la subordinazione della regione alla fede.
Si dice integralismo, fondamentalismo, oscurantismo, ma sono tutte parole fuori gioco, il lessico usuale dei laici più distratti è inadeguato a descrivere l’ambizioso progetto ecclesiastico. Esso opera dentro una grande contraddizione contemporanea, avendone avvertito per primo la portata e il significato, si colloca dentro una domanda aperta nell’epoca nostra, con l’ambizione di guidare il futuro conservando il passato, come seppero fare i grandi papi della Controriforma.
Il problema quindi alla fine non è Ratzinger ma ciò che deve allarmare di più è l’assoluta impreparazione della cultura laica di fronte a queste sfide. Il continuo scivolare verso la facile risposta del libero confronto di opinioni, anche senza avere alcuna opinione. La rimozione di domande forti a favore di banali problemi di metodo. La paura di un vera polemica con la religione, dimenticando che i frutti migliori della cultura occidentale, sia in politica sia nella stessa religione sono frutto proprio di questo scontro di idee, che oggi potremmo gestire più serenamente non essendoci più né roghi e ne inquisizioni. La polemica religiosa quando è creativa di tensione culturale, rispettosa della democrazia e ispirata ad un avanzamento dello spirito pubblico è sempre una risorsa per un popolo.
Al contrario, mi ha colpito l’unanimità della politica laica nel condannare i poveri professori di fisica, nel prendere sdegnosamente la distanza da loro, nell’affrettarsi a chi la sparava più grossa per non essere accusato di anticlericalismo.
In quell’aderire compatta alle ragioni del Vaticano la cultura laica è apparsa in tutta la sua debolezza, come un pugile suonato che allo stremo delle forze non può fare altro che abbracciare l’avversario nella speranza di non cadere al tappeto.
Così in questo bizzarro paese, in cui ogni giorno agiscono indisturbati mafiosi, inquinatori, politici corrotti e imbroglioni di ogni risma, in questa babilonia di illegalità e di arroganza, sono finiti sul banco degli imputati una settantina di fisici.
Conosco personalmente gran parte di loro, sono scienziati che danno prestigio all’Italia nel mondo nonostante il cattivo esempio che viene da gran parte della classe dirigente italiana, sono formatori di giovani brillanti costretti ad andarsene perché qui la ricerca non si può fare, sono persone miti e anche un po’ ingenue al contrario di molti furbacchioni che li hanno accusati, sono dipendenti dello Stato che dedicano tutte le loro energie dalla mattina alla sera per educare i nostri giovani non solo alla scienza, ma alla democrazia e al bene comune. Sono eroi civili di un Italia che neppure sa di averli come risorsa per il futuro. Sono stati messi all’indice come cattivi
maestri. Ed è proprio vero, mai come oggi la povera Italia avrebbe tanto bisogno di cattivi maestri come questi.



Ringrazio A.N. per questo contributo

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